Belice sette anni dopo

Domenica 14 gennaio 2024, presso la biblioteca comunale di Montevago (AG), in occasione dell’anniversario del terremoto che ha interessato la Valle del Belice nel 1968, si inaugura una mostra di opere inedite del Dott. Michele Spadaro. L’evento è organizzato dal Lions Club Patti e Lions Club Sambuca Belice, con il patrocino dei Comuni di Patti, Sambuca di Sicilia, Santa Margherita di Belice e Montevago.

Durante l’evento inaugurale interverranno il sindaco di Montevago l’On. Margherita La Rocca, il vicegovernatore del Lions Club Diego Taviano, l’avvocato Mariella Sciammetta e la curatrice della mostra Rosanna Accordino. Le opere saranno poi esposte il 31 gennaio presso il complesso monumentale dell’ex convento di San Francesco nel centro storico di Patti.

Belice sette anni dopo è il titolo con cui Michele Spadaro avrebbe intitolato il calendario ideato per offrire un aiuto economico alla popolazione della Valle del Belìce, colpita duramente nell’evento sismico avvenuto la notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968. Si tratta di una data che in molti ricordano, non soltanto nelle città coinvolte e in quelle in cui l’epicentro ha fatto eco, ma in tutta Italia.

Nel notiziario del mattino seguente i giornalisti, chiamandola erroneamente Bèlice, come spesso viene denominata ancora oggi, avevano fatto conoscere la tragedia di quanto stava accadendo. La drammaticità della situazione era balzata a agli onori della cronaca mostrando al resto dell’Italia una realtà rurale ancora molto arretrata, figlia di un retaggio feudale duro a morire. Nell’entroterra siciliano le rivolte giovanili universitarie di quegli stessi anni e i cambiamenti sociali erano ben lontani dal farsi conoscere.

La povertà della gente, che aveva perso il poco che già possedeva, aveva commosso l’opinione pubblica che presto si era prodigata a far pervenire da ogni dove materie di prima necessità. Purtroppo tanta solidarietà spontanea non era adeguatamente supportata da uno Stato impreparato a far pervenire in tempo le materie più facilmente deperibili, e le comunicazioni erano inefficaci se non addirittura inesistenti, infatti, ancor prima di pane e viveri, servivano coperte e abiti caldi perché l’inverno uccideva anche più della fame.

Agli occhi di Michele Spadaro, giunto in quei luoghi a sette anni di distanza dalla tragedia, tutto era parso irrimediabilmente uguale, cristallizzato nel tempo. Per le strade si calpestavano ancora i resti polverizzati di città fantasma il cui tanfo di putredine e marciume descriveva a pieno le sue emozioni. Ci sarebbero voluti molti anni e molti soldi prima di riuscire a far fiorire il nuovo sulle rovine del vecchio, un simbolo di rinascita e resilienza da una tragedia, attraverso l’edificazione di uno dei più importanti musei di arte contemporanea a cielo aperto. Ma una visione tanto lungimirante era ancora lontana dall’apparire nella mente di Michele Spadaro mentre, accovacciato su rocce e tronchi cavi, schizzava gli scorci desolati, i “vecchi bei palazzi accomunati in un’unica sorte con le dimore più modeste”, – come egli stesso scriveva, – “il contadino, privato della casa e della bestia, ridusse la propria esistenza al riparo di una lamiera ondulata”, e ancora, “L’arabo palmizio, ’u simbulu du patruni, guarite le ferite, rigermogliò per primo”.

Ma già parlava di germogli e di speranza, quella speranza che il Dottor Spadaro portava sempre con sé, dispensandola a coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e che continuano a ricordarlo con affetto. È, infatti, grazie a una delle sue amiche più care se noi oggi abbiamo la fortuna di poter ammirare le tredici tavole che compongono la raccolta “Belice sette anni dopo”. La Signora Elisa Mugneco, sua grande estimatrice e collezionista, a distanza di molti anni, quando si credeva che le tavole fossero andate perdute, è riuscita a fare la fortunata scoperta rintracciando le chine presso una libreria milanese. Dalle parole della Signora Elisa, l’emozione di Michele Spadaro era palpabile il giorno in cui stava per partire per il Belice: stava andando a dare il proprio contributo attraverso tredici tavole, una illustrazione per ciascun mese dell’anno più il frontespizio, di quello che sarebbe stato il calendario da vendere per poi devolvere alla popolazione l’intero ricavato. Proposito che purtroppo non avrebbe mai visto la riuscita, con grande rammarico dell’artista.

Guardando le illustrazioni è evidente che non siamo davanti alla pittura solita a cui Michele Spadaro ha abituato, con i suoi colori brillanti e una natura florida. Tracciate a china con segni netti, duri, vi sono scheletri di edifici che fanno da palcoscenico di una tragedia che non ha né tempo né luogo, ma è un simbolo immortale di una umanità devastata che travalica i secoli e che potrebbe appartenere a una catastrofe antica come a una tragedia odierna. Racconta l’umanità e la sua miseria, lì dove è più alta la dignità di un cane che protegge ancora il focolare domestico ridotto in macerie, che quella di un feudatario che tiene in povertà i suoi lavoratori. Quando si parla del terremoto del Belìce, non si parla soltanto di una scossa sismica, di un evento fisico, si racconta soprattutto di uno scuotimento più profondo che interessa il tessuto sociale, una sveglia che ha aperto gli occhi alla popolazione, ponendole davanti – letteralmente – le rovine su cui si era poggiata fino a quel momento la propria esistenza e che doveva essere superata per muovere i primi passi verso il progresso; “Financo il ficodindia, emblema classico dell’Isola, ora vegeta negativizzato tra le spine del pruno e la corolla di un umile piccolo fiore”.

Cortesy Signora Elisa Mugneco

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