OUT. Oltre l’umano tabù

OUT. Oltre l’umano tabù

a cura di Rosanna Accordino

Quando qualcosa è ritenuta illecita o viene considerata un tabù assume automaticamente connotazioni desiderabili. Accade in ogni sfera dell’esistenza, dal privato al pubblico, dal sesso all’amministrazione di società e di governi: ecco perché, per esempio, i libri proibiti da una religione o da un regime totalitario diventano i più letti.

Che cosa provoca il desiderio del proibito, quella smania di infrangere le regole, l’adrenalina di non rispettare un limite? È la volontà di andare oltre, di essere diversi, gli outsider di un sistema di regole e imposizioni che ha il solo scopo di mantenere l’ordine e non quello di assecondare una più naturale evoluzione. Il vero tabù da estirpare è quello della vergogna di sé stessi ed essere semplicemente umani, perfetti nelle proprie imperfezioni.

In un momento storico in cui nulla è più da considerare un tabù e al contempo tutto lo è diventato, l’essere umano vive ancorato alla propria individualità. Celando la parte più vera di sé, ha costruito un’intera esistenza all’interno di una bolla di illusioni e false certezze di cui la società ne è lo specchio.

In un viaggio fuori e dentro di sé, fuori e dentro il mondo che lo circonda, la mostra OUT disgrega l’essere umano nelle parti che lo compongono e lo ricostruisce con il tutto, dando un nuovo significato all’esistenza e trascendendo i molti tabù autoimposti.

Organizzatori Mostra OUT

Esiste una cultura degli emarginati e degli outsider, ricorda Raffaele Cirianni con la performance che apre la mostra, quella del Punk Hardcore che in Italia ha sempre ha avuto un taglio militante nella lotta politica e sociale. Viva l’anarchia, addio a mia madre, titolo dell’intervento artistico, è l’ultima frase pronunciata dall’attivista e anarchico italiano Nicola Sacco prima di essere assassinato sulla sedia elettrica insieme al compagno Vanzetti a Charlestown negli Stati Uniti d’America nel 1927. Omaggiando, dunque, un genere musicale che ha saputo essere presente in ogni provincia e sostenere antagonisti politici, attivisti ambientali, il transfemminismo e più in generale la comunità LGBTQIA+, l’opera pone l’attenzione sull’azione, sul fare: a suo modo dà inizio alla rivoluzione.

Nella dicotomia di un’epoca incerta e destabilizzante, dove il corpo del contemporaneo cerca la sua glorificazione all’interno della società, Davide Viggiano traspone nell’installazione Spoglia l’evanescenza carnale che si presenta nella forma di una reliquia di un santo o di un martire sottoposto al sacrificio della propria esistenza terrena. È nella perdita della sua fisicità che il corpo dell’emarginato si riappropria della sua immagine simbolica ed identitaria, espressa attraverso la sua gloria tra pubblico e privato, tra sociale e politico tra sacro e profano. La pelle è ciò in cui l’individuo si riconosce, l’armatura che ne scherma le membra e al contempo ne conferisce l’identità, individuandone il limite con il mondo che lo circonda.

Scindendo l’essere umano nelle parti fisiche di cui egli si compone, si arriva a un amalgama di cellule e particelle attive e in continuo movimento, in eterna trasformazione. Anche un corpo morto si muove mutando i propri connotati. In-Vitro, opera di Valentina Catano, rappresenta un plasma primordiale, un antico habitat, un luogo dove rintracciare le identità sociali. Estraniamento e appartenenza sono le sue peculiarità, la sua organicità crea una repulsione, ma veicola un interesse verso la sostanza di cui l’essere umano si compone: capelli donati da diverse persone, campioni che raccontano di un’esistenza fisica destrutturata del corpo umano e dell’identità degli individui. Un processo necessario alla codificazione di un nuovo e unico patrimonio identitario. La società diviene una sorta di protesi estetica presentata nel suo aspetto primitivo.

La consapevolezza di sé e del mondo porta a un cammino verso l’autenticità, quello raccontato dal lavoro di Giulia Spernazza. Appartiene alla serie Nodi/Snodi nata nel 2020. La leggerezza e la trasparenza del tessuto si annullano compattandosi fino a ottenere un corpo statico, immobile e invaso dal silenzio, non inteso come assenza di suono ma come estraniamento, mancanza di contatto con la realtà. È la conseguenza dei nodi interiori irrisolti che davanti a una crisi paralizzano, costringono le ferite fino a soffocarle e tutto diventa potenzialmente pericoloso, dannoso. Più di tutto, quell’angolo remoto della propria mente che mente, una zona cieca che si fatica ad accogliere e accettare.

Quando l’individuo entra in conflitto con se stesso, esiste solo una via di uscita da questo loop infinito che lo costringe all’isolamento. Ciò avviene attraverso il ritrovato contatto con l’altro. Il rapporto carnale è un mezzo attraverso cui la parte più vitale, l’energia primitiva trova nuovo combustibile. Nel progetto fotografico Spasmo, Alessandro de Leo fa riferimento a questo istinto primario, il raggiungimento del sé profondo attraverso l’orgasmo, la petite mort come dicono i francesi. L’atto in cui un corpo si fonde dentro l’altro fino ad appartenersi reciprocamente, con la consapevolezza che si tratti di un momento fugace destinato a essere superato presto. Sesso e morte, due dei tabù più forti, accomunati dal concetto di dispersione dell’individuo. Carne che si disgrega e si trasforma mentre l’individuo svanisce.

La fuga dalla realtà e il conseguente ritorno, la lotta costante tra il bisogno imprescindibile di integrarsi con un gruppo, che deriva dall’istinto primitivo di autoconservazione, e la necessità di rimanere fedeli a se stessi si esprimono attraverso la ricerca artistica di Mauro Serra. Rack your brain esprime, attraverso una impostazione dello scatto distopica e toni accesi di derivazione Pop, un concentrato di critica che trasla dal dentro al fuori per poi tornare indietro carica di un bagaglio pessimista e autodistruttivo. Al cervello, protagonista del trittico, non viene mai data pace, attraverso pensieri tossici che si autoalimentano.

Alla critica sociale di cosa sia giusto o sbagliato fare, di come sia giusto o sbagliato essere e apparire si contrappone la poesia raccontata per immagini dal progetto di Clarissa Falco. Con la serie di scatti fotografici analogici in bianco e nero, Transitional Skin, viene mostrata una drag queen in fase di preparazione. Mentre è intenta a indossare quella che per la società viene considerata una maschera troppo appariscente, in verità sta esprimendo la parte più vera e profonda, libera dal giudizio, sia esso interno o esterno, dove un cambio di abito segna un mutamento, contiene un ritmo, produce uno stato d’animo e altera lo spazio, coinvolgendo chiunque ne entri in contatto. È energia vitale che si trasferisce dall’uno all’altro, che nutre e apre la mente dalle consuetudini e dal torpore creativo.

L’atto di nutrirsi, di permettere a un corpo estraneo di entrare a far parte del proprio essere è qualcosa che viene dato per scontato. Ma non è soltanto il cibo che influenza la chimica di un organismo, sono anche e soprattutto le parole che generano emozioni e stati d’animo al punto da condizionare la mente, una concatenazione di cause ed effetti potenzialmente devastanti. Untitled (Oscar) è il titolo della videoinstallazione e dell’installazione edibile a opera di Elisa Merra. Nel video l’artista compie l’atto di mangiare una cialda su cui sono state scritte parole, frasi che da quel momento sono entrate a far parte di lei. Allo stesso modo invita lo spettatore a consumare egli stesso parte dell’installazione, ovvero capsule che potrebbero ricordare un farmaco, entrando in contatto anche fisico oltre che emotivo con l’opera.

L’interazione del fruitore con l’opera d’arte fa parte dei giochi proposti da Francesco Casati. “I trastulli del beato turbamento” è il progetto che analizza in chiave ironica sette tabù. La scelta del numero sette si rifà ai sette peccati capitali, ma anche al significato del sette come antico simbolo di completezza. Gli objects trouvés diventano espressione di un turbamento, che da sempre accompagna la manifestazione esplicita di ciò che è ritenuto intimo e sconveniente: “In generale, sono o diventano tabù tutti gli oggetti, azioni o persone che recano, in virtù del modo di essere loro proprio, o acquistano, per rottura di livello ontologico, una forza di natura più o meno incerta” (Mircea Eliade, Il tabù e l’ambivalenza del sacro, Universale Bollati Boringhieri, Torino, 1966, pag.17-18).

Quando si è incapaci di giocare con i turbamenti e prendersi in giro sulle proprie insicurezze, spostando l’attenzione altrove, allora è la mente ad avere il sopravvento, arrivando anche a livelli patologici. Si è soliti scinderla dal corpo, considerare che i disturbi dell’una non riguardino quelli dell’altro e viceversa. Attraverso un progetto fotografico crudo e disturbante, Lena Kappa mostra un essere umano ridotto a un pezzo di carne dentro a una macelleria. Parlare di disagio mentale è ancora oggi considerato uno dei tabù più insensati: a chiunque durante la propria vita può capitare di passare momenti difficili e lottare con pensieri intrusivi che si autoalimentano in un loop infinito, dove vittima e carnefice hanno lo stesso volto, come viene rappresentato nel lavoro fotografico Mi chiedo scusa.

La mortalità del corpo è la tematica più rigettata dall’essere umano, che cerca di nascondere a se stesso questa sua presunta debolezza andando alla costante ricerca dell’infinito. Su queste riflessioni si sedimenta il racconto dell’installazione di Caterina Sammartino, Reborn. Il tabù dell’uomo è il proprio essere finito in un tutto infinito, e non si dà pace per l’incapacità di trovare una cura a questo destino. L’opera, dunque, ricrea l’immagine di un’umanità antica e delle sue radici, e attraverso una forma non esplicita di totem con l’utilizzo di un cranio di bue, evoca un mondo ancestrale proteso verso una ritrovata spiritualità: rendere tangibile questo ostacolo inviolabile permette di trascendere la realtà terrena e ricongiungersi con un oltre indefinito.

Death comes repeatedly è un momento in perpetuo movimento, una performance intima e privata che oscilla tra assenza e presenza, tra realtà e trascendenza. L’installazione a opera di ME(A)LS DUO indaga la meccanicità condizionata del piacere e la ripetizione a vuoto delle dinamiche relazionali, riducendo le forme e arrivando alla morte di esse; in questo modo, l’ultimo spasmo tra vita e morte, l’ammiccamento intermittente della vibrazione, consente di percepire il corpo, il rapporto con sé e con l’altro, in un modo polisemantico in base ai diversi sguardi che vi si poggiano. Questa indagine sulla carnalità, tartassante e veloce, si traduce nell’installazione attraverso un linguaggio ludico e colorato, che contribuisce a creare un’atmosfera allo stesso tempo grottesca e accattivante, di cui si fa ambasciatore l’unico suono udibile nello spazio: la vibrazione meccanica del piacere.

La ricerca del piacere è una necessità imprescindibile dell’uomo, una pulsione dettata da mancanze chimiche che costringono ciascuno a procacciarsene costantemente, da ciò derivano le dipendenze, di qualsivoglia natura. Ancora una volta, è la mente che si fa promotrice di un bisogno istantaneo fisiologico, incurante delle conseguenze. In tal senso, il progetto di Gabriele Provenzano, Thief’s Tale, mettendo momentaneamente da parte le intenzioni con cui è stato ideato dall’artista, si potrebbe considerare come un esperimento sociale. Se da una parte mostra immagini amatoriali di un atto violento che disturberebbero chi non è avvezzo a questo tipo di contenuti, man mano che il video scorre e le immagini si fanno più distanti e meno nitide, anche in costoro si potrebbe innescare un meccanismo dove curiosità ed endorfine andrebbero a provocare il desiderio di procedere con la visione: e per questa ragione dovrebbero essere giudicati? per essersi dimostrati semplicemente umani?

Cosa vuol dire essere umani? Qual è il senso del tutto? Sono domande che l’uomo si pone da sempre senza essere riuscito mai a darsi risposte. Rispetto alle altre creature viventi, attraverso le elucubrazioni sui suoi stessi pensieri, ha il potere di creare il tutto dal niente e di trasforma in niente il tutto. E poi vi è il suo essere corpo, un puntino infinitesimale in un cosmo che non può essere quantificato. È questa l’immagine ricreata dall’installazione di Silvia Ottobrini. X file è un progetto quasi futuristico che vede l’umanità rinchiusa in una campana di vetro, una gabbia che si è costruita e che si è imposta. Allo stesso modo ognuno è una galassia a sé, distante per pensiero e sentimento da chiunque altro, eppure un frammento unico e inimitabile di un tutto eterno capace di andare oltre l’umano tabù.

Condividi articolo